Questa mela, dipinta in ogni posizione, sezionata, offerta impietosamente con i suoi semi visibili ai nostri occhi; isolata o raggruppata con le altre, buttata nei labirinti, giocata sulle scacchiere, perduta nelle scatole pazze, come in pericolose voragini; manovrata nei miti dell'antichità, dell'irrealtà, sospesa in certi archi troncati a mezzo, che si perdono e sfumano non si sa dove; questa mela in piano, oppure in caduta, oppure assunta in cielo come la Vergine Maria, come una Santa Teresa d'Avila, o Caterina da Siena, in mistici sudori; offerta sui vasi di Pandora, sui piatti di Caravaggio, su quelli barocchi; tesa ad arrampicarsi per diventare albero, aspirando allo spazio; infilata in valigie di prestigiatori; riflessa negli specchi di Narciso; accumulata in geometriche costruzioni; arrossata da idee sovversive; mela, diventata madre, matrice, sesso, vagina, imbevuta di sensualità, tanto da pulsare come un organo, da diventare umana, pur restando perfetta, lustra, soda, dai colori invitanti: questa mela, dicevo, è un fatto culturale terreno, e quindi anche nevrotico, di gioco da ragazzo e da artista, portato allo spasimo, all'eccesso, oppure dobbiamo guardarla come un fenomeno di psicanalisi; voglio dire da studiarsi sotto questa prospettiva, sotto questa visuale?
lo penso che il linguaggio di Vanni Viviani nasca dall'inconscio, alla base c'è indubbiamente un trauma, un bisogno disperato di bellezza, di tenerezza, di follia erotica, non brutale, ma dolce che qualcuno gli ha negata; la sua arte, la sua maniera di dipingere lo trascina sempre di più, in una sfera direi quasi religiosa, dove quella mela simbolo assolutamente
insostituibile (almeno per molto tempo ancora, come prima, nei suoi antichi quadri, c'era la spiga di grano), si fa ammirare da noi, desta il nostro interesse, cerca le nostre interpretazioni.
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